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Il bar Bianchi era aperto tutti i giorni della settimana. Tranne il lunedì. Apriva presto la mattina. Gli operai della Lanerossi, quelli del turno delle sei, si fermavano a fare colazione prima di iniziare il lavoro. Lavoro duro. E da queste parti la colazione, per sostenere i ritmi lavorativi e la nebbia che ti taglia, significa una grappa. Spesso due. Non so se al bar abbiano mai servito qualcosa di diverso che non sia stato vino, grappa o caffè. Il locale chiudeva presto la sera. Natalino, il titolare, non era anziano. Ma piuttosto era vecchia la noia che sentiva dentro, quando i suoi occhi grigi guardavano tristi, le pareti ingiallite del bar. Che di per sé gli fruttava poco. Ma aveva un piccolo particolare da non sottovalutare. Era l’unico posto dove si potevano giocare le schedine del totocalcio. Il sabato, come un rito, centinaia di persone si giocavano i sogni. Qui la gente non ragiona con la fantasia. Col sentimento. Qui si ragiona con i soldi e basta. Qui d’inverno c’è la nebbia. E d’estate l’afa che non ti permette di respirare. Qui bisogna lavorare e portare a casa lo stipendio da sistemare in banca al sicuro dal occhio scemo dell’altro. Punto. Così che Natalino al sabato chiudeva il bar alle nove di sera. Il tempo di dare una pulita veloce al bancone. Una passata al pavimento. E giù la serranda. Due giri di chiave. A casa lo aspettava la moglie. E una minestrina di brodo calda. Lo sapevamo bene io e Serena. C’erano circa dieci minuti in cui Natalino era solo dentro al bar. Che di per sé fruttava poco. Ma era sabato sera. E il paese si era già giocato i sogni. Noi non avevamo sogni. A noi i soldi servivano per “vivere” un paio d’ore in più. O per morire piano. Servivano per poter “stare”. Servivano per nascondere la nostra fragilità. La nostra incapacità di sostenere la vita. Servivano per la roba di quella stessa sera. O al massimo per il giorno dopo. Serena era in macchina. Motore acceso. Non aveva la patente ma guidava bene. È il momento. Poco prima delle nove. Mi faccio un tiro di coca da panico. Aspetto un attimo. Aspetto che salga, che mi prenda. Che arrivi ad invadermi il cervello. Il corpo. Ma sono teso più del solito. Non mi basta. Prendo una spada. Nel sacchettino sono rimasti gli ultimi due grammi. Buona. Spezzo la boccetta d’acqua. Butto dentro la coca. Scaldo. Aspetto che si sciolga. Riempio la siringa. Cerco di buttarmela tutta nelle vene. Ma ho fretta. Sono agitato. E non ho più vene nelle braccia. L’unico spazio disponibile è la parte superiore delle mani. Beccata la vena. Mi sparo due grammi di coca direttamente nel sangue. Apro la porta dell’auto. E corro verso Natalino che sta tirando giù la persiana. Con uno spintone lo ricaccio dentro il bar. L’uomo cade addosso ad un tavolino. E finisce per terra. Non mi giro nemmeno a guardarlo. Punto la cassa. Direttamente. Tra le grida in cerca di un disperato aiuto da parte barista. La cassa è vuota. Guardo l’uomo a terra. Sangue che gli esce da un orecchio. E lui che grida. Mi parte un calcio. Secco. Sullo stomaco. Che si contrae in un suono piatto. Ma cazzo, la cassa è vuota. E ormai non ho più tempo. Vaffanculo Natalino e il suo bar di merda. Mi giro di scatto per uscire. Lo vedo a terra. Inforco la porta. Devo scappare. Scappo. Quando la mia vista viene catturata dal borsello del barista appoggiato alla fine del bancone. Con vicino un sacchetto del pane. Capisco tutto. Prendo tutto. Serena mi vede e parte. Monto nell’auto al volo. E via. Via. Veloce. Più forte. Che qui ci fanno il culo, cazzo. Guardo il sacchetto del pane. Voglio vedere cosa c’è in quel cazzo di sacchetto del pane. Merda
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